I Temi Dei Nostri Tour

Storia

La contemporaneità delle terre, dell’aria e dell’acqua della città.
I mestieri della Terra.
Raffaele Federici

Nel tedesco medievale vi era un adagio: “l’aria della città rende liberi” (Stadtluft mach Frei). Tale espressione è un efficace sintesi volta a contraddistinguere il movimento che portava le persone dalle campagne alla città. La città, osservava nel 1938 Lewis Mumford, «è il simbolo delle relazioni sociali integrate: essa è la sede del tempio, del mercato, del tribunale, della scuola; con l’aiuto di tali istituzioni ed organismi la sicurezza e la continuità prevalgono per lunghi periodi, mentre edifici, monumenti, testimonianze permanenti arricchiscono la memoria vivente»

E’ il luogo della concentrazione degli individui in un passaggio che, nel medioevo, vedeva la presenza della servitù nel feudo, esclusa dalla città, legate alla zolla, alla terra, simbolo del vincolo, in opposizione allo spazio leggero dell’aria della città.Un moto che però, nel volgere le spalle alla campagna, in realtà la porta con sé, dando luogo a sistemi complessi, integrati e relazionali che coinvolgono la città e il suo contado, legati entro equilibri eco sistemici forti costituenti l’ambiente di vita dell’essere umano, come ricordano alcune formelle della Fontana Maggiore. L’agricoltura, infatti, si è identificata con la conversione della natura vivente, del capitale ecologico, in cibo, bevande e in un’ampia gamma di materie prime indispensabili per l’alimentazione umana. Attraverso questo processo le risorse necessarie sono state riprodotte e sempre più rimodellate per permettere forme di conversione più produttive, consumate nei luoghi abitati. In particolare il richiamo ai frutti della terra, il lavoro dei campi, la mietitura, la battitura e la spalatura del grano, la vendemmia, la semina e la lavorazione del maiale, nel passaggio dei diversi mesi dell’anno, ricordano al osservatore contemporaneo come nella città medievale il rapporto con i mestieri della terra fosse solido e necessario al suo sviluppo. E’ la reciprocità che inchiodava il cittadino ai lavoratori della terra.Tuttavia resta e si rafforza, in tali rappresentazioni, la tradizione latina in cui il contadino era una figura subordinata, condizione tramandata e associata al significato di individui che dipendevano dalle famiglie della città. Sono forme di rappresentazione e di associazione che rendono al osservatore contemporaneo la vitalità, anche conflittuale, della città medievale, spazi effervescenti in cui i simboli e le strutture urbane erano per così dire necessari.La città medievale, dotata di propri statuti e ordinamenti, realizzava un piccolo microcosmo. Per chi giunge da lontano si presentava come entità autonoma,circoscritta da mura, inserita in un particolare paesaggio agricolo e ben riconoscibile da lontano per il profilo di torri, tetti e guglie che la sintetizzavano come simbolo collettivo in cui si identificano tutti i cittadini. Era un luogo aperto alla circolazione delle merci e delle persone, aveva bisogno di simboli in grado di rendere visibili la necessità dell’equilibrio nei sistemi, ossia di ridefinire il rapporto fra l’urbe e la campagna. Nell’affresco del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, conservato nel Palazzo Pubblico di Siena si trova, ad.esempio, la porta della città, luogo di osmosi fra la città e una campagna governata dal suo statuto: la sanità della campagna è la condizione prima e irrinunciabile perla sanità della città. Nelle città medievali, soprattutto fra il secolo XI e il secolo XIII, nasce la tendenza di chiarire il legame fra i residenti e lo spazio grazie alla differenziazione e allo specializzazione. Gli storici chiamano tali differenziazioni modelli di spartizione che garantivano il bilanciarsi dei poteri. I modelli di spartizione diventeranno modelli di potere nell’ambito dell’attività comunale e signorile ma possono essere anche osservati come modelli volti a razionalizzare e rendere percepibile l’insieme delle relazioni urbanistiche, veri e propri atti di intenzionale pianificazione, attraverso la previsione geometrica delle relazioni e delle interferenze, della gestione urbana e territoriale. La terra è l’unità strutturale più immediata del territorio e il nesso fra la città e la campagna viene spesso rappresentato per mezzo di caratteri sacrali in spazi pubblici come un allineamento a distanza e come strumento simbolico di relazioni fra i luoghi. Tale chiarificazione del legame sociale e culturale tra i residenti e il suolo, attraverso le specializzazione dei mestieri e il formarsi delle rendite, può essere letto come un sistema di spartizione e di coordinamento che, in qualche mondo, tendeva a bilanciare i poteri fra le dinastie familiari. Un sistema volto a razionalizzare e rendere percepibili l’insieme delle relazioni fra la città e la campagna, un vero e proprio atto di intenzionale pianificazione, attraverso la previsione geometrica delle relazioni e delle interferenze, della gestione urbana e territoriale.E’ un mondo che cambia e che ha necessità di una carica simbolica visibile proprio nei luoghi di attraversamento della città, nella piazza. Qui, nella piazza corrispondente agli edifici sacri e agli edifici istituzionali si realizza l’allineamento dei valori che rappresenta l’unità cittadina che poggia proprio sui mestieri della terra. La fontana, posta nella piazza fra la Cattedrale e il Palazzo dei Priori, è un impianto simbolico, non una realtà a se stante ma esercizio anche simbolico del delicato equilibrio del potere nella città. E proprio i mestieri della terra sono parte di un sistema simbolico e mitologico complesso che consentivano ai cittadini di disporre di una chiara mappa mundi del loro sistema sociale e culturale.Un mito che sopravvive nel contemporaneo, anzi che si rafforza. Ma si rafforza diversamente. Se l’agricoltura classica era centrata sull’interrelazione fra i mestieri della terra e le loro specializzazione, l’organizzazione della produzione, gli interessi e le prospettive dei soggetti coinvolti, quella contemporanea supera tale rappresentazione. I mestieri della terra contemporanei fanno dei contadini degli imprenditori liberi in grado di organizzare autonomamente il rapporto con il mercato e con le città.

L’azione nei mestieri della terra sono un sistema di difesa per l’ambiente e, spesso, per la protezione alla biodiversità. E’ una lettura nella dignità del processo di ricontadinizzazione del territorio, un processo che si oppone alla mediocrità del mondo dell’iperconsumismo, soprattutto in relazione alla qualità e all’utilizzo responsabile delle risorse naturali e paesaggistiche.

 

COLTIVAZIONI E PAESAGGIO AGRICOLO A TEMPO DI CELESTINO V

Isabella Dalla Ragione   Fondazione Archeologia Arborea onlus

Siamo quasi alla fine del  XIII sec. quando Pietro da Morrone diventa Celestino V e poco dopo ridiventa Pietro da Morrone.  Siamo alle soglie del periodo Comunale che come vi dirò è essenziale per capire e documentare anche le trasformazioni agricole e le coltivazioni.

 Per i secoli definiti dell’Alto Medioevo l’agricoltura era per lo più  agricoltura di radura dove  grandi estensioni rimangono incolte o boscate  e si tende a coltivare solo l’area poderale facilmente controllabile, con l’orto, vigneto e frutteto per lo più per uso familiare e non certo per fare reddito.

Si tornano a raccogliere e consumare molti prodotti del bosco  (bacche e funghi) che hanno importanza vitale per le popolazioni.

In questi secoli alterne vicende portano spesso ad un decadimento qualitativo delle grandi colture come  il vigneto  e l’oliveto ma anche  per i cereali non c’è tecnica agronomica che li rende produttivi.

Arrivando al nostro secolo quello di Celestino V, siamo già in una fase  di   grandi trasformazioni nell’agricoltura e nel paesaggio. Grandi  migliorie vengono apportate e si passa appunto da una agricoltura di radura alle coltivazioni di più grandi estensioni e la messa a coltura di nuovi terreni. Tutte questo è  necessario per l’aumento demografico e la nascita di città che diventano centrali da punti di vista economico e sociale, anche per  l’introduzione avvenuta di nuovi sistemi tecnici di grande impatto come i molini ad acqua e a vento, l’aratro a versoio, etc. ma anche  seguendo i suggerimenti di grandi tecnici agronomi  (Piero de Crescenzi). Si stanno formando le piccole proprietà e soprattutto nel Centro Italia  vengono a delinearsi dei contratti agrari che porteranno alla mezzadria vera e propria. Nel  delineare il paesaggio agrario che è stato nostro fino a pochi decenni fa parte principale ce l’ha la coltura mista, consociazioni e piantate di alberi che sostengono in particolare la vite e nello stesso tempo danno foraggio con le loro foglie agli animali.

“I mezzi del congegno produttivo sin dal tempo medievale, sono: i campi seminativi o piantati o piantabili con alberi domestici (viti, olivi, frutti);  ); il bosco di castagni e di quercie; la casa del lavoratore dove la sua famiglia e il suo bestiame, da lavoro e da allevamento (bovini, ovini, suini, polli) abitano e abbiano ricovero”

La vite appunto è una delle colture principali in tutta Italia, e in tutti i territori fin  dove l’uva poteva arrivare a una pallida maturazione! La vite era comunque sempre maritata direttamente all’acero o all’olmo o coltivata tra questi alberi che ne rappresentavano il sostegno. Naturalmente le varietà di uva per la produzione di vini era ricchissima ma anche  le piante erano assai diverse dalle attuali. Un carattere inusuale per tutti descritto molto bene da Boccaccio nel Decamerone quando parlando del giardino ideale : “ esso ave dintorno da se e per lo mezzo in assai parti vie ampissime tutte diritte come strale e coperte di pergolati di viti, le quali facevan gran vista di dovere quello anno assai uve fare e tutte allora fiorite si grade odore per lo giardin rendevano che […]  pareva loro essere   tra tutta la spezieria che mai nacque in Oriente …” Profumo così intenso come le spezie del lontano Oriente.

“Una parola particolare merita anche l’olivo come pianta tipicamente italiana. L’olivo, arbor pacis insignis, come dice Isidoro di Siviglia, sembrerebbe che dovesse essere diffusissimo anche in Italia nel basso Medio Evo; ma è plausibile ritenere che così non fosse. L’olivo domestico, se razionalmente coltivato, a differenza della vite, domandava grande spazio di terreno e quindi molto spesa nella difesa per recinzione di muro e di siepe, contro il danno del bestiame vagante al pascolo. In secondo luogo, l’olivo, anche se ben lontano dall’esigere una coltivazione, direi personale, come la vite, tardava dieci venti anni a dare un primo prodotto. In terzo luogo, l’olivo era pianta che il proprietario del terreno coltivava volentieri a conto diretto perché poca si riteneva la spesa della coltivazione e molto il fruttato. L’olivo non era pianta a misura di popolo. Era quindi solo albero dell’agiatezza e della pace, non nel senso simbolico della parola ma nel significato economico e sociale (Ildebrando Imberciadori, 1973)

Rimangono i cereali la principale coltura. Non  ci sono  novità tecniche nella coltivazione del  basso Medioevo  anche se in questo periodo arrivano in coltivazione  la meliga o sorgo, il grano saraceno (Fagopyrum esculentum appartenente alla famiglia delle Poligonacee) e il riso nelle zone vocate.

Sono ovviamente i grani,  tenero da noi (Triticum aestivum) e duro (Triticum durum) nelle zone più calde  del Centro Sud Italia , ma anche altri cereali come farro grande o Spelta (Triticum spelta),  farro medio  (Triticum dicoccum),  e farro piccolo (Triticum monococcum), orzo,  segale, panico e miglio, in varietà molto diverse dalle attuali sia come resa che come aspetto. In genere per il grano si privilegiava  la grande altezza della pianta  quindi molta paglia che era materiale di grande importanza.

Insieme ai cereali sono i legumi che hanno una grande rilevanza  economica e alimentare

Ceci, lenticchie, fagiolino dall’occhio, e fave. In misura minore  cicerchie che sono riservate alle popolazioni più povere o addirittura allo svezzamento degli animali.  Anche i legumi in tante varietà diverse rispondenti alle diverse esigenze climatiche e adattate.

Tra le specie ortive grande importanza hanno già meloni, cipolle, porri, tutti tipi di cavoli, e le amate carote  o altre radici come le rape.

E poi ovviamente i fruttiferi che fanno parte delle già citate piantate o segnano il paesaggio, i confini e i luoghi. La frutticoltura non fu mai specializzata e non lo divenne  mai fino a tempi recentissimi. Le piante da frutto erano coltivate possibilmente vicino alla proprietà ma sempre in maniera rada per no fare ombra alle altre colture importanti come cereali, ortaggi e vite.

Le piante da frutto sono messe a  dimora a servizio del consumo familiare del padrone, del signore e del contadino e del mezzadro.  

In genere grandi alberi che servono in particolare per la produzione di legni pregiati (come il pero e il ciliegio) e danno ombra nei campi al momento della raccolta, e danno frutta.

Nella scelta delle varietà  già Carlo Magno o meglio dal suo consulente botanico Benedetto di Aniane, consiglia nel suo Capitulare di villis una serie di piante da coltivare. Perché citiamo questa lista così antica ((intorno alla fine del 700) ? perché questo documento rimane fondamentale e di base per tutti i trattati di agricoltura fino al Rinascimento. “70- Vogliamo che nell’orto sia coltivata ogni possibile pianta: il giglio, le rose, la trigonella, la balsarnita, la salvia, la ruta, l’abrotano, i cetrioli, i meloni, [ …] Quanto agli alberi, vogliamo ci siano frutteti di vario genere: meli cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi, noci, ciliegi di vari tipi. Nomi di mela: gozmaringa, geroldinga, crevedella, spiranca, dolci, acri, tutte quelle di lunga durata e quelle da consumare subito e le primaticce. Tre o quattro tipi di pere a lunga durata, quelle dolci, quelle da cuocere, le tardive   

Quali sono le specie e varietà privilegiate già al tempo? Quelle che quindi  si potevano conservare meglio  per assicurare alimento anche durante l’inverno.

Abbiamo ovviamente le pere e le mele in decine di varietà, cotogni, fichi,  ma anche ciliegi in particolare il ciliegio acido Amarene, Visciole, Marasche) forse diffuso  già dai Longobardi, molto meno presenti sono le pesche, frutto considerato male dal punto di vista alimentare,  e poi ruolo molto importante lo hanno i frutti secchi come noci, nocciole  e mandorle. In particolare queste ultime che sono molto utilizzate nell’alimentazione per il loro potere energetico ma per la frugalità della pianta. Un uso che era molto in voga già al tempo era quello di consumare la mandorla fresca o mandolino. Tanto in voga di andarlo a rubare e così da  costringere a mettere negli Statuti comunali che proprio in questo momento cominciano ad essere redatti , spesso una rubrica in cui si prevedono pene pecuniarie a chi è sorpreso a rubare  questi giovani frutti.

Alcune specie,  introdotte da poco tempo, sono appannaggio degli speziali,ovvero Melagrane e merangole o arancio amaro.

In tutto questo lungo periodo definito Medioevo ovvero dalla caduta dell’Impero Romano fino all’epoca di cui parliamo però occorre parlare del ruolo essenziale per l’agricoltura e la scienza agronomica oltre che la conoscenza delle piante e delle proprietà di questa, che ebbero gli ordini monastici, in particolare i Benedettini e gli ordini derivati. Fu proprio il monachesimo organizzato a sviluppare come dice Montanari, fino in fondo il progetto di addomesticare la natura senza rinunciare alla sua purezza originaria. In particolare i monaci si fanno portatori di un modello di alimentazione vegetariana ma non spontaneistica ma ben studiata, con consumo di cerali, ortaggi e legumi, frutta.  L’influenza che hanno gli ordini monastici sull’agricoltura del tempo è anche dovuta alla loro importante presenza sul territorio con grandi abbazie e estesi terreni annessi sui quali si sperimenta, si coltiva, si bonifica e si fa reddito.  In particolare ovviamente i Benedettini e gli ordini che da essi derivano. Questa loro influenza rispetto per esempio ai Francescani, che peraltro sono appena nati al tempo di Celestino, è originata proprio dal loro essere stanziali e creare grandi comunità monastiche che ovviamente dovevano essere mantenute e nutrite. Il tutto poi viene direttamente dalla Regola di Benedetto che  detta le regole appunto secondo le quali il lavoro nell’orto inteso come spazio di produzione di cibo e erbe medicinali, è spazio anche per il pensiero religioso e per meditazione.  Mentre i francescani percorrono in lungo e in largo il territorio e poco tempo stanno in un luogo, non procedendo quindi a coltivazioni stanziali, i benedettini cambiano e correggono, lavorano e bonificano, studiano e sperimentano in tutti i settori della agricoltura influenzando così il paesaggio e i territori che per lungo tempo ‘dominano’.

 

Fu davvero “gran rifiuto”? La rinuncia al Pontificato di Celestino V alla luce di quella compiuta da Benedetto XVI

Gianluca D’Elia, archivista e storico locale

 

Ormai 6 anni e un mese orsono, i mass media di tutto il mondo trasmisero una notizia che, sulle prime, a tutti sembrava incredibile: papa Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, annunciava pubblicamente le sue dimissioni da Romano Pontefice, al Concistoro del 10 febbraio 2013.

Queste le parti essenziali del suo discorso, o meglio della sua “Declaratio”:

“Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni : vires meas, ingravescente aetate, non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum”.

Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino.

“[…] in mundo nostri temporis, rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam”.

“[…] nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro ed annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.

Un gesto che ha cambiato il volto della Chiesa che in epoca moderna non aveva ancora assistito all’abdicazione di un Pontefice. Nel corso dei secoli, infatti, diversi Papi (nove per la precisione) hanno rinunciato al ministero petrino ed il caso più noto è, senza ombra di dubbio, quello di San Celestino V. Come ben ricorderemo, il 28 aprile del 2009, ventidue giorni dopo il tremendo terremoto che colpì l’Aquila, papa Benedetto, in visita in Abruzzo,  chiese di poter pregare davanti la teca che custodiva le spoglie del Pontefice che fece “il gran rifiuto”. E  nella basilica di Collemaggio, quasi completamente distrutta dalla furia del sisma, Papa Ratzinger pregò sulle reliquie di Celestino V. Prima di andare via, pose sull’urna il pallio papale, simbolo del pastore alla guida del gregge.

Ma una domanda su tutte è più che legittima e si pone spontanea: in che differiscono le  “dimissioni” di Celestino da quelle di Benedetto? È solo una questione storico-giuridica? Del resto sono passati in fondo “solo” nove secoli ed altri papi hanno messo in atto la Rinuncia all’Ufficio di Romano Pontefice…

Proviamo dare qualche risposta, seppure per sommi capi.

La renuntiatio pontificalis , intanto, è un istituto giuridico previsto dal codice di diritto canonico che regola le modalità di cessazione di un Papa dal proprio ufficio per dimissioni volontarie; essa costituisce l’unica altra causa di cessazione oltre alla morte del pontefice. In questa circostanza, il codice di diritto canonico evita di utilizzare l’espressione “abdicazione” o “dimissione”, e utilizza il verbo “rinunciare”. La questione, pertanto, è giuridico-teologica assieme, ma non può essere alienata anche dal contesto storico.

Sul problema dell’ammissibilità di una rinuncia al papato i giuristi cominciarono ad occuparsene intorno già al XII secolo, di distinguere le eventuali cause legittime da quelle inammissibili, e ponendo anche il problema dell’inesistenza di un superiore gerarchico nelle cui mani il papa in carica potesse rassegnare le dimissioni.

Per esempio il giurista Baziano sosteneva che la rinuncia fosse ammissibile in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia: «Posset papa ad religionem migrare aut egritudine vel senectute gravatus honori suo cedere».
Dal canto suo il canonista Uguccione da Pisa confermava le osservazioni di Baziano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi.  

Nel Liber Extra del 1234, si precisava che altre potessero essere cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l’inadeguatezza del papa per defectus scientiae, nell’aver commesso delitti, nell’aver dato scandalo («quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit») e nell’irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinuncia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, già ritenuto ammissibile dai canonisti.

Per la rinuncia di papa Celestino V abbiamo due frange di canonisti “pro” e “contro”: a favore furono Pietro di Giovanni Olivi, i teologi della Sorbona Godefroid de Fontaines e Pierre d’Auvergne. Contrari i cardinali nemici di Bonifacio VIII, Giacomo e Pietro Colonna (e qui si entra in pieno nella delicatissima situazione storica di allora) che presentarono nel 1297 tre memoriali, intesi a dimostrare l’illegittimità della rinuncia di Pietro da Morrone. Contro la rinuncia di Celestino si espressero anche Iacopone da Todi e Ubertino da Casale, che nel 1305 la giudicò una «horrenda novitas», avendo favorito le successioni degli «anticristi» Bonifacio e Benedetto XI. Successivamente alla rinuncia di Celestino V, fu Bonifacio VIII, emanando la costituzione Quoniam aliqui, a eliminare ogni condizione ostativa e a stabilire l’assoluta libertà del pontefice in carica a rinunciare al papato, una norma recepita dal Codex Iuris Canonici del 1917.

Ecco la “declaratio” celestiniana:

“Io Celestino V, mosso da ragioni legittime, per bisogno di umiltà, di perfezionamento morale e per obbligo di coscienza, per debolezza del corpo, per difetto di dottrina e per cattiveria del mondo, per l’infermità della persona, al fine di recuperare la pace e le consolazioni del mio precedente modo di vivere, liberamente e spontaneamente, mi dimetto dal Pontificato…”

Celestino V , terminata la lettura, scese dal trono, si tolse mitra, manto e insegne deponendole per terra. Si rivestì di un rozzo mantello e uscì dal Concistoro.

Per capire i motivi della rinuncia bisogna comprendere – come dicevamo – il particolare momento che attraversava la Chiesa in quel periodo, segnato dalla feroce lotta tra la famiglia degli Orsini, guelfi, e dei Colonna, ghibellini.

Dopo la morte di Nicolò IV nell’aprile del 1292, il Conclave fu spostato prima a Roma, poi a Rieti e infine a Perugia, nelle stanze adiacenti il chiostro della nostra Cattedrale di San Lorenzo. Dopo ben 27 mesi di discussioni giunse al cardinale Malabranca, decano del Sacro Collegio, una lettera di fra’ Pietro da Morrone, con la quale lo pregava di giungere in fretta alla nomina, pena gravi castighi a lui rivelati da Dio in un sogno. La lettera fu letta nel Conclave e raggiunta l’unanimità dei consensi sul nome di fra’ Pietro, fu stilato il decreto di elezione in data 5 luglio del 1294 . L’annuncio venne inviato all’eremo di Sant’Onofrio, dove l’eremita si trovava, tramite una delegazione di cui facevano parte Carlo II d’Angiò e suo figlio Carlo Martello.

Un bellissimo articolo di Alfonso Marini, dal titolo “La rinuncia di Celestino V” (edito in Eurostudiumottobre-dicembre 2012 e disponibile on line) offre degli spunti di riflessione a mio avviso particolarmente interessanti, che racchiudono e compendiano le tante riflessioni storico-teologiche sulle due dimissioni. Ne desidero offrire in questa sede qualche assaggio, ma consiglio caldamente di leggerlo per intero. Lo studioso infatti esamina alacremente il sensazionalismo mediatico all’indomani delle dimissioni di Papa Ratzinger ed afferma : “Non c’è che dire: benché la storia ‐ come affermano gli storici ‐ non si ripeta, i richiami e le suggestioni di gesti ed eventi anche molto lontani nel tempo tornano alla memoria, a volte immediatamente, in avvenimenti della nostra contemporaneità”. E racconta dei diversi paragoni, alcuni davvero troppo azzardati tra i due pontefici. Un’affermazione molto azzardata è stata per esempio quella di Eugenio Scalfari che affermò che “Celestino V fu costretto a dimettersi dai francesi che poi continuarono ad esercitare il loro potere su Bonifacio VIII fino allo schiaffo di Anagni”.  

Ed aggiunge :

“Sulle ipotesi fiorite attorno al motivo della rinuncia di Benedetto non mi soffermo, ma sicuramente essa non costituirà un caso isolato, come per Celestino, bensì un precedente più forte di quello del 1294 per i prossimi pontefici, precedente che potrebbe portare anche ad una nuova prassi, come per i limiti di età per i vescovi (settantacinque anni) e per i cardinali elettori in conclave (ottanta), davvero qualcosa di moderno. Va infine ricordata un’ulteriore coincidenza storica, che non mi pare sia apparsa sui mezzi di informazione: la concomitanza della rinuncia di Benedetto XVI con il settimo centenario della canonizzazione di Pietro del Morrone ‐ Celestino V (1313). Quella di Celestino V è una vicenda ben nota agli storici, se ne ha ampia documentazione contemporanea e successiva allʹelezione, alla rinuncia ed alla morte (1296), nonché precedente, dato che Pietro del Morrone, eletto papa il 5 luglio 1294, aveva alle spalle più di ottanta anni di vita, la maggior parte dei quali passati come monaco, eremita, fondatore e capo di un ordine religioso approvato dal papato. Si conserva un documento ufficiale di Celestino V, la bolla di indizione dellʹindulgenza plenaria di Collemaggio (nota ancora oggi come Perdonanza), non resta un registro del suo pontificato, ma si conoscono molti suoi provvedimenti, quasi tutti cassati da Bonifacio VIII, gli atti dellʹinquisitio in partibus del processo di canonizzazione di Pietro del Morrone, il Compendium di tali atti redatto ad uso dei cardinali per il processo di canonizzazione in Curia, nonché varie Vite‐agiografie, lʹOpus metricum del card. Jacopo Caetani Stefaneschi, opera mastodontica in versi che tratta ampiamente di Celestino, e varie cronache del secolo XIV che ne danno notizia, come facilmente immaginabile”.

L’articolo poi si snoda elencando la foltissima produzione divulgativa ed agiografica su Pietro da Morrone, sviluppatasi in modo particolare nell’ultimo quarantennio da illustri medievisti, tanto che oggi, il giudizio sulla figura di Celestino V oscilla, come sempre accade nella storia, tra pareri favorevoli e contrari e tra chi lo considera un vertice della spiritualità medievale, connettendo lo stesso Pietro del Morrone ‐ come parte attiva ‐ alle aspettative di rinnovamento della Chiesa, non lontano da quelle di carattere gioachimitico di fine Duecento. Papa eremita e papa contadino, in riferimento alle sue origini ma anche alle sue attitudini, tanto da considerare i famosi versi di Dante “colui / che fece per viltade il gran rifiuto” (interpretati come rivolti al papa rinunciatario) esprimenti non viltà in senso morale, contrapposta al coraggio, ma viltà dei natali, che per lʹaristocratico Alighieri avrebbe reso Celestino incapace di reggere la carica Pontificia. 

Pietro del Morrone ha dunque una lunga storia precedente ai suoi quattro mesi di pontificato; la storia delle istituzioni monastiche o della spiritualità ne avrebbe comunque dovuto tenere conto anche se non fosse stato eletto al soglio di Pietro. Le legendae agiografiche e gli atti del processo di canonizzazione offrono abbondanti notizie sulla sua vita monastico-eremitica, sulle sue fondazioni e sul suo rapporto con i fedeli, che in gran numero accorrevano a lui per vederlo, per assistere alle sue celebrazioni e per chiedere guarigioni. La sua ascesi era rigida, non solo vivendo in eremi poco confortevoli, ma con diete ristrettissime per ampi periodi dellʹanno (le quaresime erano quattro), bevendo vino soltanto per la messa, ed indossando un cilicio ferreo che rompeva le carni fino a farle putrefare. Un personaggio perfettamente in linea con i suoi tempi.

Fu la vicenda del suo pontificato a presentarsi come punto dirimente nellʹinterpretazione del suo operato e della sua rinuncia, in rapporto non soltanto a ciò che possono essere la psicologia e la spiritualità personale, ma soprattutto alla storia della Chiesa, intesa come istituzione e gerarchia ed alla storia politica al passaggio dei due secoli. Si tratta di valutare non soltanto tre mesi e mezzo di pontificato, ma le motivazioni che portarono alla sua elezione i cardinali nel conclave di Perugia; le aspettative popolari della seconda metà del Duecento che precedono il conclave stesso; le discussioni teologiche e canonistiche che seguirono la sua rinuncia, vertenti sulla possibilità che un papa lasciasse la sua carica e sulla validità dellʹelezione di Bonifacio VIII, legate anche queste alle diverse correnti nella Chiesa ed alla rivalità tra famiglie romane; la cattura e la prigionia di Pietro (ormai non più Celestino) nella rocca di Fumone; le voci che accusavano Bonifacio di aver commissionato lʹassassinio del suo predecessore, la cui consistenza gli storici devono valutare. E infine lʹemergere di un mito di lunga durata, nato dalla delusione del concreto pontificato di Celestino, quello del pastor angelicus, un papa che sarebbe arrivato a purificare la Chiesa.

Lʹelezione di Celestino V avvenne alla fine di un conclave lungo e controverso, nel quale la contrapposizione tra le famiglie romane degli Orsini e dei Colonna aveva provocato una situazione di impasse. Il predecessore Niccolò IV, primo papa francescano, era morto il 4 aprile 1292, ma la lunghezza del conclave fu dovuta anche ad elementi esterni. Convocato il 14 aprile e fallita la prima votazione nella contrapposizione tra le due principali famiglie romane, che contavano ognuna due cardinali su un totale di 12, il 2 agosto il conclave fu sospeso per la pestilenza, che provocò la morte di un cardinale. Dopo altri ritardi per scontri a Roma tra gennaio e luglio 1293, il conclave fu spostato a Perugia per il 18 ottobre. Si giunse così, sempre in stallo, al 1294, quasi due anni dalla morte di Niccolò IV. Il numero dei porporati non era elevato, allʹelezione ne furono presenti solo 9, tra cardinali diaconi, preti e vescovi; allʹepoca (e fino ai tempi di Giovanni XXIII) la distinzione non era soltanto di dignità: i diaconi ed i preti erano tali, non vescovi, come oggi tutti i cardinali. Tra le due famiglie romane, Benedetto Caetani era in posizione di attesa. La sua famiglia non aveva un peso elevato come le altre, la sua importanza crebbe proprio grazie al suo successivo pontificato. Le pressioni politiche non mancavano, soprattutto da parte del re di Sicilia, Carlo II dʹAngiò, molto interessato alle caratteristiche del futuro papa, anche perché impegnato nella lunga guerra del Vespro, iniziata nel 1282 e che si concluderà nel 1302 con la pace di Caltabellotta mediata da Bonifacio VIII, che come papa era lʹalto signore feudale del Regno. Non va infine dimenticato lʹelemento dei fedeli, a vari livelli; lʹinquietudine nella cristianità cresceva di fronte alle incertezze del collegio cardinalizio che non dava un nuovo papa. Cʹè da dire che la figura del papa era diventata particolarmente importante non solo nellʹecclesiologia, ma anche nella sensibilità e se si vuole nella spiritualità cristiana occidentale.

Ma se ad ampi strati della cristianità si possono attribuire sinceri sentimenti di rinnovamento spirituale, la decisione dei cardinali sembra suggerita, più che da commozione religiosa e da ispirazione divina, da un compromesso: un papa di transizione, ultraottantenne, in attesa di equilibri o accordi diversi in un vicino futuro. Un papa inesperto, che si affidasse docilmente alla guida del sacro collegio. Così non fu, almeno inizialmente.

Adducendo motivi di debolezza per lʹetà avanzata e la stagione estiva troppo calda, per lʹincoronazione il papa eletto non volle recarsi a Roma, ma nemmeno a Perugia o alla vicina Rieti, ma scelse LʹAquila, a lui cara, dove aveva fondato lʹabbazia di Collemaggio, ma a Carlo II tornava utile una tale solennità nella città la cui fondazione risaliva a pochi decenni prima (allo svevo Federico II, ma soprattutto a suo padre Carlo I) e con i cui abitanti aveva avuto contrasti e scontri fino allʹuccisione del loro capo Niccolò dellʹIsola pochissimo prima, nel 1294: era unʹottima opportunità di pacificazione. Pietro arrivò allʹAquila cavalcando un asino tra la folla osannante, per umiltà, in ricordo dellʹentrata in Gerusalemme di Gesù Cristo.

Insomma, possiamo solo constatare che la vita da papa sembrò sempre più stretta a Celestino, che pensò alla rinuncia e chiese consiglio al Caetani, che, con la sua grande esperienza canonistica, trovò gli argomenti per dimostrarla legittima. Il 13 dicembre, davanti ai cardinali riuniti in concistoro, Celestino espresse la sua rinuncia con la formula preparatagli dal cardinal Benedetto, depose le vesti papali, indossò il suo vecchio e povero saio e, tornato Pietro, poco dopo si avviò alle sue montagne abruzzesi e molisane, per riprendere la sua vita di monaco ed eremita ed il 23 dicembre successivo fu eletto Bonifacio VIII che riportò la curia papale a Roma.

Quello che è più interessante circa la rinuncia è che essa si ebbe non soltanto per motivi di politica ecclesiastica, ma anche per questioni teologiche e canonistiche. Cʹera chi sosteneva che il papa, come vescovo di Roma, non poteva lasciare la sua chiesa, cui lo legava un vincolo sponsale indissolubile come il matrimonio.

Rimane poi il fatto – comune alla rinuncia di Benedetto XVI – che Papa Celestino era ormai vecchio e stanco; assai più decisamente interessato ed anzi proiettato a servire la Chiesa negli anni che gli sarebbero rimasti da vivere, in una dimensione contemplativa del suo sacerdozio che non attiva. Altra comunanza con papa Benedetto è la “libera scelta” della rinuncia. Il senso di debolezza fisica, a causa dellʹetà, di fronte ai compiti del pastore dei cattolici ed alle difficoltà ed ai contrasti che egli ravvisa nella curia e nella Chiesa. Quello di Celestino dunque ha costituito un valido precedente, già acquisito nel Codice di diritto canonico emanato da Giovanni Paolo II.

Celestino V e Benedetto XVI : due papi con aspetti simili, ravvisabili nell’atto di umiltà e fede di entrambi che capiscono ed interpretano i segni dei tempi. Dei tempi in cui la Chiesa necessita di un nuovo Pastore che con vigore sappia tenere il timone della barca di Pietro, che abbia la forza di rifiutare i compromessi con una “Chiesa politica” a favore di una “Chiesa spirituale”, più vicina alle origini.

Il motivo vero della rinuncia di Celestino V è dunque riconducibile alla sua limpida condotta morale che è anche la ragione per la quale questo papa viene ancora oggi ricordato con ammirazione e a titolo d’esempio.

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